Effetti sulla materia concorsuale del d. l. 8 aprile 2020 n. 23
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il rinvio del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. – 3. La sospensione degli obblighi in caso di perdita del capitale sociale. – 4. I principi di redazione del bilancio. – 5. I finanziamenti alle società. – 6. I concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione. – 7. Le domande di fallimento.
1. Premessa.
Mercoledì 8 aprile è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, con entrata in vigore dal giorno successivo, il D.L. 23/2020 che introduce misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, interventi in materia di salute e lavoro nonché proroga di termini amministrativi e processuali (c.d. “Decreto Liquidità”).
Gli articoli da 5 a 10 D.L.23/2020 sono dedicati alla materia concorsuale.
Di seguito, oltre a ricordare le novità introdotte, si proverà ad ordire un breve commento a caldo per comprendere il significato delle misure adottate e l’impatto che esse avranno sulla materia concorsuale in rapporto alle norme esistenti (e sospese) od attese, come il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza.
L’art. 5 sposta di un anno, al 1° settembre 2021, l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza che, emanato con mille difficoltà e tanto coraggio il 12 gennaio 2019, aveva previsto un periodo di decantazione di 18 mesi che sarebbe scaduto il 14 agosto 2020.
L’art. 6 detta la sospensione, per l’esercizio in corso, dell’obbligo per le società di ricostituire il capitale in caso di perdita (artt. 2446, 2447, 2482-bis, co. 4, 5, 6 e 2482-ter c.c.) e di applicare lo scioglimento dell’ente in caso di sua omissione (artt. 2484, co. 1, n. 4 e 2545-duodecies c.c.).
L’art. 7 ha sospeso l’obbligo, dettato dall’art. 2423-bis c.c., di verificare la sussistenza della continuità aziendale per la redazione del bilancio 2020, consentendo di fatto la valutazione delle poste secondo il principio del going concern anche in difetto dei requisiti per la sua esistenza.
L’art. 8 permette ai soci di recuperare i finanziamenti effettuati in società senza l’obbligo di rispettare il principio di postergazione rispetto agli altri creditori.
L’art. 9 detta agevolazioni a favore degli imprenditori sottoposti a procedura di concordato o di omologa dell’accordo di ristrutturazione a cui riconosce la facoltà di chiedere una proroga del termine sino a 90 gg per riformulare un piano e una proposta od ottenere un differimento del temine ex art. 161, co. 6 l.fall. anche in pendenza di domande di fallimento, ovvero, se già omologati, per posticipare sino a 6 mesi i termini di pagamenti programmati.
L’art. 10 infine dispone l’improcedibilità delle domande di fallimento depositate tra il 9 marzo 2020 e il 30 giugno 2020 salvo che per quelle avanzate dal P.M. corredate da istanze cautelari o conservative ex art. 15 l.fall.
2. Il rinvio del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza.
Il provvedimento di rinvio dell’intero Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (di seguito “CCII” o “D.Lgs. 14/2019” o “Codice della Crisi”) è giustificato, nella relazione illustrativa, con i seguenti cinque argomenti: 1) la necessità di differire l’introduzione delle misure d’allerta i cui indicatori non potrebbero svolgere alcun concreto ruolo selettivo in questo momento di crisi globale; 2) l’intempestività dell’entrata in vigore della legge il cui scopo principale di allargare il più possibile il salvataggio delle imprese stimolandole a condotte virtuose, rischia di essere frustrato dalla situazione di crisi globalizzata nella quale attualmente si dibattono; 3) la scarsa compatibilità tra lo strumento giuridico nuovo e la situazione di grave sofferenza economica che suggerisce di ripristinare per l’operatore un sistema normativo conosciuto che eviti, in aggiunta alla grave crisi, di accrescere lo stato di incertezza; 4) la necessità di evitare di far cadere l’entrata in vigore della legge in pieno periodo feriale, differendolo, con l’occasione del rinvio, ad epoca successiva ad esso; 5) l’opportunità di coordinare l’entrata in vigore della legge con l’applicazione della Direttiva UE 1023/2019 in materia di ristrutturazione preventiva delle imprese il cui termine di recepimento nei paesi membri scade il 17 luglio 2021.
Negli argomenti della relazione illustrativa echeggia una vena pretestuosa che spinge a manifestare il dispiacere (se non il disappunto) per il differimento nell’applicazione di uno strumento capace di introdurre grandi elementi di modernità nella complicata materia della crisi d’impresa, che è poi un aspetto del più generale problema dell’economia con la quale si misura.
Che l’allerta andasse differita non vi era alcun dubbio: lo strumento dell’allerta è stato già fortemente criticato e richiede per la sua sperimentazione una situazione socioeconomica di stabilità, indicativa della normalità per capire soprattutto quali (eventuali) aggiustamenti richieda per produrre quei risultati di raddrizzamento della colonna vertebrale dell’imprenditoria italiana che ha l’ambizione di realizzare (stroncando principalmente l’effetto dumping realizzato attraverso l’evasione fiscale e contributiva).
Il differimento dell’introduzione della procedura dell’allerta era già stato disposto, prima, limitatamente alle c.d. “nano imprese” (quelle sotto le soglie dell’art. 2477 c.c. nuovo conio), attraverso l’art. 41 del c.d. “Correttivo” in discussione alle camere ma ormai di dominio pubblico tra gli operatori del settore, e poi esteso a tutti attraverso l’art. 11 del D.L. 9/2020, con ciò sottraendo attendibilità al primo e principale motivo della necessità del rinvio del Codice.
Peraltro proprio il fatto che con i precedenti interventi normativi si fosse pensato di spacchettare il Codice della Crisi procrastinando l’istituto più detonante relativo all’allerta, lasciava ritenere che l’impianto del Codice della Crisi non dipendesse da questo, pur importante, istituto ma che potesse reggere egualmente anche nella sua momentanea assenza.
La seconda motivazione non dice nulla circa la maggior capacità degli strumenti attuali di perseguire il risultato di un miglior salvataggio delle imprese in una situazione emergenziale come quella vissuta ora.
La terza argomentazione, riferita all’opportunità di lasciare all’interprete strumenti più certi per affrontare la crisi, appare altrettanto pretestuosa se solo si pensa che dal 2005 al 2015, in piena crisi economica e con una cadenza martellante di circa un intervento legislativo all’anno, la tematica concorsuale è stata oggetto di ben nove differenti provvedimenti normativi[1] che hanno “shakerato” la materia concorsuale come non mai, impedendo la sedimentazione del pensiero giuridico sulle norme di volta in volta varate e sottraendo certezza ed affidabilità all’interprete.
Le ultime due motivazioni non richiedevano certamente l’arrivo del Covid-19 per un intervento in quanto lo slittamento al termine del periodo feriale dell’entrata in vigore del CCII è inconferente rispetto alla scelta di posticipare di un anno l’ingresso della legge, mentre il coordinamento con la Direttiva UE 1023/2019 è un esigenza che non è mai parsa in grado di contrastare il Codice della Crisi non solo perché abbondantemente preceduta dalla proposta 2016/0359 discussa in Commissione Europea che anticipava di circa tre anni il testo ufficiale licenziato con la Direttiva, ma soprattutto perché il D.Lgs. 14/2019 ne precorre praticamente tutti i temi, lasciando comunque ai correttivi delegati dalla Legge 8 marzo 2019 n. 20 la possibilità, nei due anni successivi all’entrata in vigore del D.Lgs. 14/2019, di affinare il testo anche in prospettiva di un maggiore allineamento con la Direttiva UE.
Dunque la probabilità che forze politiche centrifughe e critiche a prescindere nei confronti dell’introduzione del Codice della Crisi e vicine alle attuali forze di governo, abbiano soffiato sul fuoco della pretesa incompatibilità dello strumento normativo con la situazione emergenziale, è assai concreta.
In realtà, al netto della procedura d’allerta, sulla cui opportunità di differimento si può convenire e a cui si può aggiungere anche l’obiettiva difficoltà di comprimere a soli 12 mesi le misure protettive, il rinvio in blocco di una riforma su cui gli operatori si preparavano da oltre un anno, non è per nulla condivisibile: è contrario al vero che essa avrebbe costituito un maggior ostacolo alla ripresa economica. Anzi, vale esattamente il contrario, e ciò permette di comprendere come abbiano vinto le forze restauratrici che mostravano contrarietà alla sua introduzione, visto che il rinvio di alcune norme, come tra poco si vedrà, potrebbero potenziare la ripresa.
Senza la pretesa di elencare tutte quelle parti del CCII che avrebbero probabilmente favorito anziché danneggiato l’assorbimento della crisi economica che seguirà a quella epidemiologica, si vogliono, per brevi cenni, ricordare alcuni degli istituti recepiti nel nuovo corpo di norme, il cui ulteriore rinvio non gioverà alla situazione attuale e di immediato futuro.
Si pensi innanzitutto all’elencazione delle “definizioni” (art. 2 CCII) che permetteva all’interprete di dotarsi di nozioni di grande spessore giuridico quali quelle di “crisi”, di “sovraindebitamento”, di “consumatore”, di “gruppo di imprese”, di “misure protettive”, di “domicilio digitale”, di cui ha necessità per operare nel moderno mondo del diritto in cui trovano applicazione, ma si pensi anche agli istituti giuridici mai esistenti prima ma di cui si sente ormai un fortissimo bisogno.
Si pensi ancora ai “principi generali” che vanno esattamente incontro a quelle esigenze di solidarietà e condivisione di interessi sulle quali l’attuale situazione emergenziale ci ha obbligato a riflettere; al fatto che siamo parte di un tutto ove le contrapposizioni a cui eravamo abituati – e a cui appartengono le figure antinomiche debitore/creditore – sono diventate in un colpo solo anacronistiche.
L’immagine medievale del debitore che si dà alla fuga inseguito dai creditori e che ancora nell’art. 7 del R.D. 267/1942 rappresenta uno degli anacronistici indicatori dell’insolvenza viene con il CCII sostituito con il tentativo di operare un dialogo tra le contrapposte forze economiche in campo nella ormai indifferibile comprensione che il liberismo sfrenato a cui eravamo abituati non è efficiente e che chi resta indietro merita una seconda chance (come indicato anche dalla Direttiva UE 1023/2019 anticipata dal nostro D.Lgs. 14/2019) a condizione ovviamente che mostri di aver tenuto una condotta onesta e che l’impresa sia ancora in grado di soddisfare una necessità di mercato, meritando di essere recuperata al tessuto economico della comunità sociale.
L’art. 4 del CCII è un manifesto di questo spirito: richiede alle parti buona fede, correttezza, trasparenza e il rispetto dell’altrui interesse; solo per questo articolo il CCII sarebbe dovuto entrare in vigore con anticipo anziché in ritardo.
Le soluzioni di promozione degli accordi con l’abbassamento della soglia di validazione e la possibilità di superare gli ostruzionismi di alcuni istituti di credito o dell’amministrazione finanziaria (artt. 63 e 48 CCII) avrebbe rappresentato un formidabile strumento di elastica uscita dalla crisi.
Che dire poi delle procedure di composizione delle crisi di sovraindebitamento che, nella versione del CCII, propongono soluzioni che attendono da anni la luce per dare risposte a problemi attuali quali la crisi partorita in ambito familiare (art. 66), o la falcidia e ristrutturazione dei debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio o della pensione (art. 67), oppure la ormai anacronistica sperequazione dei crediti da ritenute rispetto agli altri privilegiati con sovversione dell’ordine dei privilegi indicato dall’art. 2777 c.c. (art. 67), la possibilità di separare il patrimonio dell’indebitato conservando l’immobile sotto la condizione di pagare il creditore ipotecario (art. 67), o ancora la maggior facilità di accedere alle procedure con la minimizzazione (per non dire l’abolizione) del requisito (tutto giudiziario) della meritevolezza (art. 69) od infine la possibilità di aprire il concorso dietro richiesta dei creditori (art. 268) e la possibilità di accedere all’apertura della liquidazione senza patrimonio (art. 283): quale miglior momento di quello attuale per testare questi strumenti che sicuramente avrebbero trovato eccellente terreno di applicazione?
Passando alla liquidazione giudiziale, pensando all’attuale situazione di crisi, viene in mente tutta la riforma dei rapporti pendenti e soprattutto la più flessibile, organica e tutelante gestione dei rapporti con i dipendenti a cui è garantita la prededuzione in caso di protrazione del periodo di sospensione nell’ottica di cessione dell’azienda da cui dipendono (art. 189) e a cui è comunque garantito l’accesso al trattamento NASpI meglio e più efficacemente coordinato con il fallimento dell’impresa (art. 190).
Insomma quasi tutto del nuovo Codice della Crisi meritava un salvataggio in luogo di un ingiustificato ritardo che ha il sapore di una restaurazione voluta per motivi ben diversi da quelli che l’hanno giustificata e operata con una abbondante spruzzata di fumo negli occhi del cittadino.
3. La sospensione degli obblighi in caso di perdita del capitale sociale.
L’art. 6 del D.L. 23/2020 oltre a sospendere l’obbligo di ricapitalizzazione e l’applicazione dello scioglimento automatico in caso di omissione, comporta, come conseguenza, l’inapplicabilità delle responsabilità dell’amministratore in caso di mancata ricostituzione del capitale e la prosecuzione dell’attività in momentanea assenza del capitale sociale.
La norma è apprezzabile come strumento a sostegno dell’impresa ma è anche una bandiera bianca alzata sul fronte degli aiuti dello Stato alle aziende; il fine salvifico che si propone è realizzato per lo più attraverso il ribaltamento delle criticità in capo ai fornitori e sostenitori finanziari dell’impresa i quali dovranno attraversare il “buco nero” dell’esercizio 2020 chiudendo gli occhi ed incrociando le dita.
Infatti ove la società si trovasse con patrimonio netto negativo, il sostegno finanziario sarebbe ribaltato sulle spalle dei creditori i quali tuttavia non hanno la possibilità di sapere se il debitore ha esaurito gli strumenti finanziari per onorare i propri obblighi, in quanto la perdita del capitale non obbliga più l’amministratore ad orientare l’operato della società verso condotte conservative nel rispetto prioritario dei creditori; in una sorta di far west dove vale tutto, può invece continuare legittimamente a correre senza patrimonio nell’auspicio di risollevarsi a danno dei creditori i quali per lenirsi le ferite saranno (salvo i casi più eclatanti) anche privati dell’azione di responsabilità verso l’amministratore.
Insomma lo strumento pare un grido di: “si salvi chi può” senza prospettive strategiche alle spalle.
4. I principi di redazione del bilancio.
L’art. 7 del D.L. 23/2020 consente a quelle società che già operavano nella prospettiva della continuità aziendale, di conservare lo stesso criterio di redazione del bilancio 2020 anche se gli indici di continuità dovessero essere assenti e ciò per evitare la difformità dei criteri di valutazione delle poste di bilancio dettata dagli effetti dell’epidemia di Covid-19.
La norma prevede, in ogni caso, che delle ragioni di applicazione del criterio di continuità aziendale anche in difetto dei suoi presupposti si dia atto nella relazione informativa allegata al bilancio: la previsione consente quantomeno la giusta informazione ai creditori che dunque possono farsi una corretta opinione e valutare se continuare a concedere credito o servire l’impresa.
Su questo intervento normativo non si appuntano pertanto elementi di critica.
5. I finanziamenti alle società.
L’art. 8 del D.L. 23/2020 permette la restituzione dei finanziamenti ai soci senza i vincoli derivanti dagli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.
Anche in questo caso la norma è il riconoscimento dell’impotenza dello Stato al sostegno dell’economia per la quale si stimola l’imprenditore ad autofinanziarsi autorizzandolo però a dribblare le regole a favore dell’ordine dei pagamenti.
L’art. 2467 c.c. è un caposaldo dell’equilibrio societario ed imprenditoriale; l’imprenditore è consapevole che i finanziamenti o gli aiuti comunque eseguiti a favore dell’impresa sono posposti nel rimborso ai crediti di ogni altro creditore e ciò è una regola di coerenza in quanto potrebbe essere tentato, conoscendo, a differenza dei suoi creditori, la situazione finanziaria della società e il generale andamento della gestione, di rientrare dei finanziamenti prima dei crediti dei suoi creditori, privandoli in questo modo della possibilità di soddisfare il loro credito.
L’esonero da questa elementare regola costituisce un salvacondotto nel territorio della violazione dei precetti fondanti della nostra legalità contenuti nel brocardo “pacta sunt servanda”.
È ben vero che un analogo esonero esiste anche nell’ambito del concordato preventivo e dell’accordo di ristrutturazione, ma la situazione è completamente differente: in quel perimetro l’incentivo al finanziamento è inserito in un piano teso a permettere il pagamento (ancorché in misura falcidiata) del ceto creditorio e a vincere la riluttanza ad impiegare il patrimonio dei soci al fine di favorire il superamento della crisi, accordando così il beneficio della prededuzione nella misura dell’80%, il tutto sotto la supervisione degli organi deputati al controllo nell’interesse dei creditori.
In questo caso invece quella adottata è una misura senza il confine di alcun controllo che mette nelle mani dei soli amministratori (che per lo più, nel contesto italiano, sono diretta espressione dei soci) la decisione se, quando e come rientrare dei finanziamenti effettuati dai soci, il che offre ovviamente il fianco ad operazione speculative volte ad esempio a rappresentare una condizione di salute finanziaria dell’impresa per attrarre altri finanziamenti o forniture che poi non verranno onorate per via del rientro delle sovvenzioni eseguite.
Dunque anche questa disposizione appartiene alla schiera della “deregulation” selvaggia come se questa potesse essere la panacea di tutti i mali mentre probabilmente sarà solo la radice di una situazione di tutti contro tutti dove a perdere sarà chi rimane per ultimo con il cerino in mano: non esattamente ciò che ci si attende da una manovra di strategia economica.
6. I concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione.
L’art. 9 del D.L. 23/2020 prevede differimenti di 3 mesi per la riformulazione di un piano e di una proposta di un concordato preventivo e di un accordo di ristrutturazione o differimenti di 6 mesi nelle scadenze di un piano già omologato.
È ben vero che chi si trova in una procedura concorsuale in questo particolare frangente, riconduce l’insolvenza o la crisi ad episodi di disequilibrio finanziario disancorati dall’attuale emergenza, tuttavia il debitore è pur sempre un imprenditore che tenta di risolvere la propria crisi con strumenti differenti al fallimento e che, pur avendo elaborato un piano in condizioni di mercato ordinario, si vede obbligato a rielaborarlo in condizioni completamente difformi nelle quali, oltretutto, le previsioni del futuro basate sull’esperienze del passato non contano più nulla e gli aiuti esterni saranno quantomeno improbabili.
Dunque in queste condizioni concedergli solo tre mesi in più senza dotarlo di strumenti più performanti è come allungare di poco la vita ad un condannato a morte la cui sorte è comunque segnata.
Occorreva evitare di fare di tutte le erbe un fascio e distinguere i concordati in continuità da quelli liquidatori, nei quali ultimi tre mesi non risolvono nulla, salvo l’apporto di nutrita finanza supplementare la cui decisione in ogni caso non richiede certamente una meditazione così lunga per essere generata.
La continuità aziendale è invece solitamente orientata alla conservazione, almeno in parte, dei livelli occupazionali e alla protrazione dei rapporti pendenti con l’obiettivo di conservare la macchina produttiva generatrice di business, di redditi, di imposte: dunque proprio per via del fatto che si tratta di un soggetto particolarmente fragile con intenzioni di recupero del proprio equilibrio economico-finanziario e di soddisfacimento del ceto creditorio (almeno in parte), un sostegno più vigoroso, proprio nell’interesse prioritario del mercato e dell’economia, sarebbe stato auspicato.
Poteva per esempio essere anticipata la possibilità prevista dall’art. 48 del CCII (nella versione novellata dal “Correttivo”) di dare per ammessa l’adesione dell’amministrazione finanziaria quando, anche sulla base delle risultanze del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forma di previdenza o assistenza obbligatoria è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.
Questa soluzione avrebbe dato un sostegno concreto alle imprese in difficoltà con un elevato debito fiscale alle quali spesso l’amministrazione finanziaria semplicemente non fa pervenire la propria espressione di voto anche ove quanto proposto sia vantaggioso rispetto all’alternativa liquidatoria (e già soltanto ciò dovrebbe dare suggerimenti sugli ispiratori della manovra restauratrice).
In aggiunta a questa soluzione si sarebbe potuto prevedere la temporanea sospensione dell’art. 88 comma 4-ter del T.U.I.R. volto ad evitare che, in condizioni di normalità, il debitore veda cumularsi il vantaggio derivante dalla detassazione della sopravvenienza da esdebitazione con quello correlato all’utilizzo delle perdite fiscali nonché delle ulteriori deduzioni richiamate dalla norma in compensazione con i futuri redditi generati dalla prosecuzione dell’attività.
Un altro suggerimento potrebbe essere quello di chiarire il tema della destinazione dei flussi derivanti dalla continuità aziendale: una parte della giurisprudenza è orientata a ritenere che essi non si sottraggano alla regola del pagamento dei creditori secondo l’ordine legittimo delle prelazioni e che dunque debbano essere destinati a pagare interamente i privilegiati prima di soddisfare, a cascata, i chirografari (in questo senso da ultimo Trib. Padova, 24 gennaio 2019).
Questo orientamento non è a mio giudizio condivisibile in quanto il metro di soddisfacimento dei privilegiati è il valore del patrimonio alla data della presentazione del concordato che è l’unico che permette di operare un confronto con l’alternativa liquidatoria in sede fallimentare e dunque misurare la convenienza della soluzione concordataria in continuità (in questo senso Trib. Milano, 8 novembre 2016 e Trib. Prato, 07 ottobre 2015).
Per dare un sostanziale aiuto a quegli imprenditori (finanziariamente) malati che si prodigano per il salvataggio dell’impresa e dei livelli occupazionali, la situazione emergenziale potrebbe essere l’occasione per fornire un elemento di chiarificazione nel senso qui proposto, dichiarando sostanzialmente l’equivalenza dei flussi derivanti dalla continuità aziendale alla finanza esterna quanto a destinazione, eventualmente mitigando ipotesi d’abuso attraverso l’indicazione del limite del soddisfacimento dei creditori chirografari non superiore a quello garantito al ceto privilegiato falcidiato.
Insomma gli interventi per venire incontro alle aspettative di chi si trova a metà del guado in una situazione che lo spinge sempre più verso il fallimento sono davvero più strutturati e numerosi rispetto al semplice rinvio di 90 gg per la formulazione (con gli stessi mezzi finanziari già esistenti) di una nuova proposta che non potrà che essere peggiorativa rispetto alla precedente, con buona pace dei creditori e del mercato.
7. Le domande di fallimento.
L’art. 10 D.L. 23/2020 dispone l’improcedibilità di tutti i ricorsi per dichiarazione di fallimento depositati tra il 09 marzo 2020 e il 30 giugno 2020.
Le ragioni di questa iniziativa sono state indicate – nella relazione illustrativa – nel duplice scopo di evitare al ceto imprenditoriale la pressione crescente delle istanze di fallimento, sottraendo gli imprenditori alla drammatica scelta se depositare istanza di fallimento in proprio in un quadro nel quale lo stato di insolvenza può derivare da fattori esogeni e straordinari, oltre a venire incontro alla ritenuta difficoltà di subordinare la riconducibilità dello stato di insolvenza all’emergenza epidemiologica determinata dal diffondersi del Covid-19 che avrebbe comportato per i Tribunali un carico supplementare di lavoro insopportabile per l’attuale situazione di emergenza.
Con poca riverenza viene da commentare con il proverbio cinese secondo cui: “quando il dito indica la luna, lo stolto guada il dito”.
Eh sì perché le domande di fallimento che si sarebbero dovute depositare tra il 9 marzo e il 30 giugno (salvo casi risibili che potevano essere valutati con strumenti ad hoc) non attengono per nulla ad insolvenze che trovano la loro radice nell’attuale stato epidemiologico bensì in dissesti esplosi quantomeno nell’autunno scorso e l’accertamento giudiziale di tale circostanza dura il tempo della verifica – minimale – dell’anzianità delle inadempienze o della formazione del D.L. alla base dell’istanza di fallimento.
È noto che le procedure più veloci nella loro istruttoria sono quelle mosse dallo stesso imprenditore o dai dipendenti che cercano di pervenire il più rapidamente possibile al fondo di garanzia dell’INPS a tutela delle ultime tre mensilità e del TFR e successivamente all’indennità NASpI; quest’ultima ipotesi è tuttavia già sterilizzata dall’apertura delle procedure di cassa integrazione in deroga previste per tutte le categorie di lavoratori che ha disinnescato il loro interesse verso le forme di protezione salariali collegate al fallimento.
Quanto ai debitori, sarebbe stato più semplice concedere a coloro che avessero voluto accedere ad uno strumento alternativo al fallimento, un termine doppio per la predisposizione di un piano e di una proposta senza decretare un’improcedibilità che non elimina le ragioni dell’insolvenza né le risolve.
Decorso il termine “di grazia” le istanze di fallimento fioccheranno di nuovo ed assai più numerose di prima in quanto quelle eventualmente bloccate non si saranno nel frattempo risolte e le nuove che effettivamente trovino proprio nella crisi epidemiologica la loro causa, riprenderanno a correre, senza dunque che la sospensione abbia risolto alcunché.
Anche questo provvedimento dunque si risolve in una croce posta sulle spalle dei creditori che non aiuta per nulla quei debitori che effettivamente fossero caduti nel dissesto a causa della crisi, a meno di attendersi nel frattempo provvedimenti assai più efficacemente elargiti dalla divina provvidenza.
Né l’argomento dell’affaticamento delle strutture giudiziarie pare di maggior presa atteso che il problema era già stato compiutamente risolto attraverso l’art. 1 del D.L. 11/2020 con la sospensione dell’attività giudiziaria dal 9 marzo 2020 al 22 marzo 2020, poi dilatata dall’art. 83 D.L.18/2020 al 15 aprile 2020 ed infine ulteriormente prorogata con l’art. 36 del D.L. 23/2020 al 11 maggio 2020; provvedimenti che hanno nei fatti già permesso il differimento di tutti i procedimenti prefallimentari privi di una congenita urgenza la cui assenza è assai più opportuno poter valutare caso per caso anziché estendere con effetto amnistiale a tutti gli episodi di insolvenza senza che, come detto, il disposto di improcedibilità sappia venire effettivamente incontro neppure a coloro che subiscono la crisi per effetto di questa emergenza: dunque il provvedimento è difficilmente condivisibile perché scarsamente efficiente.
In conclusione se vi doveva essere un intervento sulla materia avrebbe potuto (e dovuto) avere connotazioni differenti cercando di venire effettivamente incontro agli imprenditori bisognosi senza scaricare indiscriminatamente sul ceto creditorio le problematiche dell’insolvenza generata dalla crisi sanitaria.
NOTE
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[1] Gli interventi normativi nella decade sono di seguito elencati:
1) Legge 14 maggio 2005 n. 80 che aveva interessato le revocatorie fallimentari ed il concordato preventivo;
2) Le modifiche introdotte dal d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 e dall’art. 36 della legge 30 dicembre 2006 n. 273 mille proroghe, convertito nella legge n. 51 del 23 febbraio 2006;
3) Il d.lgs. 12 settembre 2007 n. 169 che ha parzialmente rettificato alcune norme oggetto delle precedenti modifiche;
4) La legge n. 69 del 18 giugno 2009 che è intervenuta sul concordato fallimentare;
5) La legge n. 122 del 30 luglio 2010 che ha disciplinato i finanziamenti alle società in concordato ed a quelle proponenti un accordo di ristrutturazione; la stessa legge ha reso quei crediti prededucibili ed ha aggiunto l’art. 217 bis l.fall. sulla esenzione dei reati di bancarotta;
6) Legge n. 134 del 7 agosto 2012 recante misure urgenti per la crescita del paese, cd «legge sviluppo»;
7) Legge n. 221 del 17 dicembre 2012 recante ulteriori misure urgenti per la crescita del paese;
8) Legge n. 98 del 9 agosto 2013 recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia;
9) Legge n. 132 del 6 agosto 2015 recante misure urgenti in materia fallimentare.