Gli atti in frode e l’inutilità della meritevolezza

a cura dell’avv.to Gianfranco Benvenuto

Gli atti in frode ai creditori sono eventi al cui verificarsi consegue l’arresto della procedura di sovraindebitamento: questa disposizione non solo è ripetuta nella L 3/12 ma è pure nozione di generale condivisione.

Tuttavia se dalla petizione di principio si scende al contenuto dell’espressione al fine di dare un confine alle condotte sanzionate, allora i margini di certezza scivolano.

La giurisprudenza di merito ha cercato di riempire di significato l’espressione “atti in frode” identificandoli con quelli di disposizione patrimoniale fraudolenti il cui disvalore è tale da impedire che anche la loro “disclosure” possa permettere la prosecuzione nel procedimento in quanto il loro autore risulta immeritevole dei benefici che la legge 3/12 riserva ai debitori che si avvalgono della procedura.

A questa conclusione la magistratura (cfr. Trib. Prato 28/09/2016, Trib. Milano 18/11/2016, Trib. Verona 09/05/2018, Trib. Monza 21/11/2018) perviene attraverso la considerazione che la legge 3/12 in tutte le tre figure di sovraindebitamento prescrive che il debitore indichi gli atti di natura dispositiva compiuti nell’ultimo quinquennio aggiungendo a ciò la necessità di allegare una relazione dell’OCC che deve investigare sulla sua condotta del passato, verificando le cause del sovraindebitamento, la diligenza mostrata nell’assumere le obbligazioni, le ragioni che hanno impedito di assolverle, la solvibilità del debitore negli ultimi cinque anni e gli atti impugnati dai creditori.

Questa attività di approfondita indagine ha fatto ritenere di essere funzionale all’accertamento della meritevolezza verso la procedura, da negarsi nel caso sia stato compiuto un atto di disposizione effettuato con finalità protettiva, a nulla valendo il suo palesamento.

La giurisprudenza ritiene che il significato così attribuito alla nozione di “atti in frode” sia comune a tutti e tre gli istituti del sovraindebitamento e che nella L 3/12 il legislatore ha operato in controtendenza rispetto a quanto preveduto nel concordato preventivo ove invece all’art 173 l.f. la sanzione dell’arresto della procedura consegue all’accertamento da parte del C.G. di un atto di frode nascosto dal debitore con la finalità sottesa di alterare ai creditori la percezione della situazione patrimoniale ostacolando la conoscenza delle reali prospettive di soddisfacimento che potrebbero derivare dalla soluzione della liquidazione fallimentare (al riguardo si veda in particolare Trib. Milano 18/11/2016).

È possibile che questa impostazione sia però frutto di un errore.

Occorre smentire alcune assunzioni che stanno alla base del ragionamento sopra riportato.

In primo luogo gli “atti in frode” sia nel Piano del consumatore (di seguito: “Piano”) che nella Liquidazione del patrimonio (di seguito: “Liquidazione”), sono evocati tra i requisiti di ammissibilità della procedura mentre nell’Accordo di composizione della crisi (di seguito “Accordo”) detto requisito emerge a procedura già avviata.

Occorre anche osservare che nel Piano e nella Liquidazione il giudice “verifica l’assenza degli atti di frode” (cfr. artt. 12 bis e 14 quinquies L 3/12) mentre nell’Accordo è chiamato ad “accertarli”.

Quest’osservazione si sposa con quella dei diversi requisiti di ammissione delle tre procedure che per le prime due (Piano e Liquidazione) contempla una relazione del gestore incentrata sull’indagine della responsabilità del debitore riguardo all’origine e gestione delle sue obbligazioni nonché sull’esistenza di atti impugnati dai creditori, mentre l’Accordo ne è priva limitandosi il legislatore a richiedere la produzione di elementi che consentano la ricostruzione dei dati economici e patrimoniali al fine di ottenere l’indicazione della completezza ed attendibilità dei dati, requisito fondante per tutte e tre le procedure.

Occorre ancora aggiungere che nel Piano e nella Liquidazione l’ammissibilità alla procedura dipende dalla “verifica dell’assenza degli atti di frode” e non già da una valutazione negativa che il giudice può ricavare dall’operato del debitore riferita al passato perché in questo caso ad esempio il ludopatico non potrebbe certamente accedere al sovraindebitamento.

La conclusione che se ne trae è che in entrambe queste due procedure, unite da un’identità di requisiti per l’ammissibilità, la relazione del gestore è funzionale alla verifica del giudice: ovverosia il giudice ricaverà il dato sull’esistenza o meno del requisito della commissione di atti di frode dal raffronto  (“verifica”) dei dati offerti dal debitore nella domanda con quelli accertati dal gestore e riversati nella relazione cosicché ove emerga una divergenza e dunque il nascondimento o la dissimulazione di dati volta ad orientare il giudizio verso la propria prospettazione dei fatti (diversa da quella emergente dalla relazione), allora il magistrato ha il dovere di arrestare la procedura.

La “verifica” di un atto di disposizione fraudolento compiuto nei cinque anni dalla domanda del Piano è certamente un atto in frode per la doppia ragione che esso: i) incide sul requisito della completezza dei dati economici patrimoniali che il debitore deve offrire in quanto la sua fraudolenza lo espone al recupero (attraverso l’azione revocatoria) del bene alla garanzia del debitore; ii) ai sensi dell’art 14 terdecies L 3/12 costituisce un requisito per l’esdebitazione che evidentemente deve essere rispettato anche nel Piano che comporta lo stesso esito come suo effetto naturale.

Tuttavia occorre anche segnalare che nell’art 14 terdecies L 3/12 l’atto di disposizione patrimoniale impedisce il conseguimento dell’esdebitazione se è stato lo strumento per favorire alcuni dei creditori (o sé stesso) a danno di altri e non già perché l’autore debba essere considerato “immeritevole” bensì in quanto ha violato il principio ispiratore di tutta la procedura concorsuale, che è il rispetto della par condicio creditorum.

Dunque a valle di questa prima riflessione pare giungersi alla prima conclusione che la meritevolezza non costituisce un requisito immanente della legge né uno strumento per la lettura e l’interpretazione della nozione di atti di frode.

Inoltre nella Liquidazione del Patrimonio è smentito l’assunto secondo cui l’assenza del “requisito” della meritevolezza sarebbe volta ad impedire che il debitore acceda alla procedure per ottenerne i benefici che dalla legge derivano, con riferimento evidente a quello dell’esdebitazione, poiché questo non è un suo effetto naturale: dunque nella Liquidazione non si vede la ragione per la quale un atto di disposizione ancorchè fraudolento e dichiarato dovrebbe impedire l’accesso alla procedura per ragioni attinenti alla meritevolezza

L’affermazione si scontra poi con altre due osservazioni: la prima è che data la prossimità della Liquidazione con la procedura di fallimento di cui costituisce una copia semplificata, mutatis mutandis sarebbe come dire che l’imprenditore che ha commesso atti di frode non sia passibile di fallimento.

La seconda osservazione è che l’accesso alla Liquidazione avviene oltre che per effetto della domanda del debitore, anche a seguito della conversione di una delle altre due procedura per ragioni di patologia del processo legate per lo più ad indiscutibili atti di frode verificatisi nel corso del suo svolgimento; se dunque gli atti di frode che impediscono l’accesso alla Liquidazione fossero gli atti di disposizione del patrimonio, non si capisce perché nel caso di conversione questo requisito non debba più essere valido.

Ciò dovrebbe convincere che l’atto di frode non può essere assimilato tout court all’atto di disposizione patrimoniale né tanto meno essere scambiato con la meritevolezza con funzione di sentinella di ingresso alle procedure e ciò sia perché la Liquidazione non porta di per sé a nessun vantaggio sia in quanto, ad Accordo o Piano avviati, proprio l’atto di frode rappresenta la ragione per la conversione nella Liquidazione: ciò induce a ritenere che il requisito di ammissione rappresentato dagli atti di frode stia a significare altro.

Proprio il confronto con l’ipotesi della conversione di cui all’art 14 quater L 3/12 e la presenza del verbo “verifica” nell’art 14 quinquies (“il giudice verificata l’assenza degli atti di frode”) fanno ritenere che la chiave di lettura debba essere data dalla funzionalità rispetto alla completezza ed attendibilità dei dati.

nella conversione, il giudizio sulla completezza e attendibilità dei dati patrimoniali ed economici era già stato ricavato come requisito dell’accesso alle altre procedure e dunque la frode successivamente realizzata non è idonea ad incidere su quel requisito che abbiamo definito fondante; nella Liquidazione del Patrimonio la verifica della divergenza tra le informazioni offerte dal debitore e quelle ricavate dall’accertamento del gestore fanno emergere perplessità sul requisito cardine del sovraindebitamento e soprattutto della Liquidazione del Patrimonio la cui sostituzione alle procedure esecutive dei singoli creditori si giustifica con la certezza che il patrimonio coinvolto sia proprio tutto quello che appartiene al debitore e che costui lo abbia messo interamente a disposizione dei suoi creditori ritenendo, in difetto, la Liquidazione un procedimento imperfetto e soprattutto non concorsuale.

Sotto questa diversa luce l’atto di disposizione patrimoniale fraudolento, verificato dal giudice, non costituisce motivo di ostacolo alla Liquidazione del Patrimonio perché indicatore della immeritevolezza del debitore, ma perché non permette di prestare affidamento alla reale consistenza patrimoniale del debitore il cui consolidamento è ancora in divenire soprattutto se oggetto di atti di impugnazione da parte dei creditori.

Questa osservazione si sposa oltretutto con la limitatezza dei poteri del liquidatore che, a differenza di quelli del curatore nel fallimento, non registra al suo interno le azioni di massa per la ricostruzione del patrimonio, dovendo rimettersi dunque alle azioni promosse dai singoli creditori che, pertanto, provocano ineliminabili perturbazioni rispetto alla procedura di Liquidazione.

Passiamo infine alla procedura di Accordo di Composizione che, a differenza del Piano e della Liquidazione, non contempla tra i requisiti d’ingresso la “verifica dell’assenza degli atti di frode” né il deposito da parte del gestore di una relazione approfondita tesa ad esprimere valutazioni sulla responsabilità del debitore nella formazione del mancato assolvimento del debito.

Il legislatore all’art 10 L 3/12 ha stabilito che, a procedura avviata, ne dispone la revoca ove “accerti la presenza di iniziative o atti di frode ai creditori”.

In questo caso in assenza di una relazione del gestore non vi è nulla da “verificare” ed infatti il legislatore utilizza il verbo “accerta” che significa: “disvelamento” di qualcosa che è stato tenuto segreto o nascosto dal debitore.

La contiguità dell’Accordo con la procedura di Concordato, di cui ripropone lo schema in via semplificata, porta ovviamente a fare un parallelo tra i due istituti per verificare se l’interpretazione offerta in seno alla seconda sia applicabile anche alla prima.

In effetti in entrambi i casi il legislatore ha utilizzato il verbo “accerta”: sia nell’art 173 l.f. dove il compito di accertare è affidato al C.G., sia nell’art 10 L 3/12 in cui è attribuito al giudice che vi perviene attraverso il Gestore.

Nel Concordato Preventivo l’accertamento del C.G. è stato interpretato in termini di disvelamento, nella rappresentazione della situazione economico-patrimoniale, di elementi di carattere patrimoniali non rivelati dal debitore nella domanda di concordato che, se conosciuti dai creditori, li avrebbero indotti a prendere una decisione differente sulla proposta di concordato (Cass 30537/2018; Cass 5689/2017; Cass. 26429/2017; Cass. 7379/2018; Cass 16856/2018).

Pertanto la frode è rappresentata da una mistificazione dei fatti da parte del debitore con la finalità (anche se non realizzata) di manipolare il consenso informato dei creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, dovendo il giudice verificare, quale garante della regolarità della procedura, che vengano messi a disposizione del ceto creditorio tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione della proposta.

Peraltro anche nel Concordato, come nell’Accordo, alla presentazione della domanda consegue un automatic stay che sospende immediatamente le procedure esecutive in corso e ne vieta di nuove per il solo fatto di aver depositato la domanda di concordato.

Infine anche nell’Accordo come nel Concordato la domanda è sottoposta ad una votazione il cui quorum è perfino superiore (60%) anche se in questo caso il meccanismo del silenzio assenso facilita indubbiamente il raggiungimento del risultato.

Dunque a parità di schema di istituto e di esigenze di completa informazione per la corretta e consapevole formazione del consenso da parte dei creditori non si vede ragione per attribuire all’espressione “atti di frode” un significato differente.

Alla luce delle precedenti considerazioni in caso di atto di disposizione da parte del debitore che ne faccia dichiarazione nella domanda, senza il timore di esporsi alla valutazione negativa dei creditori che darà il giudizio attraverso la votazione dovrebbe essere valutato nello stesso modo tanto nell’Accordo così come nel Concordato senza la necessità di ricorrere al requisito della meritevolezza che la stessa Cassazione ha definito un “fossile normativo” (Cass 13817/2011)

Ma allora la condotta del debitore che si spogliasse dolosamente di tutto o parte del patrimonio contando poi di offrire ai creditori una soluzione di accordo per la quale confidasse nella votazione della maggioranza “distratta” non riceverebbe sanzione da parte del giudice che giudicasse ineccepibile sotto il profilo della trasparenza il comportamento del debitore.

Non occorre giungere a questo estremo: anche per il Concordato questo tipo di condotta è sanzionata attraverso il richiamo all’abuso del diritto o dello strumento processuale che permette di ergere difese contro il debitore disonesto rigettando la sua domanda (Cass. 12533/2014).

Dunque in conclusione si ritiene che non occorra ricorrere a nozioni di meritevolezza, di cui il legislatore peraltro non dichiara l’esistenza, per sanzionare gli atti di frode per la cui nozione l’esperienza testata dalla Cassazione in ordine all’interpretazione dell’art 173 l.f.  costituisce un ottimo approdo.


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