Il fallimento di società estinte

Ancora sull’assetto legislativo in tema di modifica unilaterale dei contratti bancari di durata e diritti di recesso (d.l. n. 70 del 13 maggio 2011)

L’attuale fragilità del sistema economico nazionale (oltre che europeo) – e la conseguente maggiore esposizione delle aziende a scenari di decozione – sta dando nuova voce ad alcune tematiche fino ad ora forse poco calcate dagli operatori del diritto.

Risale ormai al 2003 la riforma del Codice Civile (d.lgs. n. 6/2003) che – coinvolgendo, in particolare, le norme dettate in materia societaria – ha innovato l’art. 2495 in termini assai rilevanti, prescrivendo che «(1) approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. (2) Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. (3) La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società».

Il tenore letterale del comma 2 è chiaro: la cancellazione della società dal registro delle imprese ha effetto costitutivo e ne produce l’estinzione indipendentemente dall’esistenza di crediti insoddisfatti o di rapporti ancora non definiti, per risolvere i quali si potrà agire verso i soci ovvero i liquidatori, al ricorrere delle condizioni ivi dettate (cfr. ex multis Cass. civ., sez. un., sent. 4061 del 22.2.2010).

Insomma, il Legislatore del 2003 ha stabilito in termini chiari l’estinzione della società a fare data dalla cancellazione della stessa dal registro delle imprese, e con essa anche i suoi organi.

Sul punto è inequivocabilmente intervenuta pure la Giurisprudenza (i) dichiarando inammissibile il ricorso per Cassazione promosso dal Liquidatore di una società medio tempore cancellata, in quanto privo di capacità processuale e dunque di potere di rilasciare procure alle liti (Cass. civ., sent. n. 29242 del 12.12.2008) e (ii) negando anche all’Amministrazione finanziaria dello Stato la possibilità di chiedere conto dei debiti maturati nei suoi confronti a società ormai estinte, a meno che la stessa non riesca ad agire nei confronti del Liquidatore che abbia agito con dolo o colpa (Cass. civ., sez. trib., sent. n. 22863 del 3.11.2011).

Tutto sembrerebbe chiaro e ben scandito, in ossequio al principio della certezza del diritto e delle relazioni giuridiche tra i soggetti del nostro ordinamento, eppure il Legislatore ha commesso un errore di coordinamento tra la suddetta norma e l’art. 10 l.f. di non poco momento.

Recita l’art. 10, comma 1 l.f. che «gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo».

Quid juris, allora, per l’ipotesi che un creditore rimasto insoddisfatto nei confronti di una società nel frattempo estintasi (e privo della concreta possibilità di agire contro soci o liquidatori), si determini alla proposizione di una istanza di fallimento ex art. 10 l.f. per la tutela dei suoi interessi?

L’art. 2495 c.c. sembrerebbe suggerire alle società in odore di fallimento una semplice risposta al quesito: deliberare per tempo lo stato di liquidazione per poi arrivare alla cancellazione stando solo attenti a non realizzare (e/o distribuire) alcun attivo. A partire da quel momento il soggetto giuridico (ed i suoi organi) verrebbero naturalmente a mancare, con buona pace dei creditori e dello strumento fallimentare dell’art. 10 l.f.

Un vuoto normativo, quello appena delineato, colmato solo dall’intervento nomofilattico della Cassazione.

La Suprema Corte (cfr. sent. n. 22547 del 5.11.2010), infatti, ha fugato i dubbi relativi alla piena operatività dello strumento fallimentare statuendo che la cancellazione «nel limite temporale di cui alla L. Fall., art. 10, non esclude la persistenza degli organi societari ai soli fini della dichiarazione di fallimento». Ciò in quanto «la dichiarazione di fallimento nell’anno dalla cancellazione non può che essere pronunciata nel contraddittorio con il liquidatore, nel rispetto della L. Fall., art. 15». Peraltro, conclude la Corte, «ai sensi della L. Fall, art. 18, il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento può essere proposto da chiunque dimostri di avervi interesse e non è revocabile in dubbio la sussistenza dell’interesse del liquidatore della società fallita che deduca la violazione del contraddittorio».

Naturalmente, l’immediata estinzione della società quale effetto costitutivo della propria cancellazione dal Registro delle Imprese vale solo per l’ipotesi che tale adempimento sia occorso dopo l’entrata in vigore dell’art. 4 d.lgs. n. 6/2003 (che ha modificato l’art. 2495 c.c.). Per il passato, invece, continuerà a valere la precedente disciplina da ultimo richiamata dalla Corte di Cassazione ovvero che «la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese non ne determina ipso facto l’estinzione, tale effetto verificandosi solo in conseguenza della definizione di tutti i rapporti pendenti. La società conserva – pertanto – in pendenza di una situazione siffatta, la sua piena capacità processuale tanto attiva che passiva e va evocata in giudizio in persona del suo liquidatore o, in mancanza, di un curatore speciale, nominato ai sensi dell’articolo 78 del codice di procedura civile» (Cass. civ., sez. II, ord. n. 9797 del 4.5.2011).

Questo è, allo stato, il punto d’arresto del dibattito sul tema qui affrontato e che, certamente, invoca a gran voce un intervento definitivo del Legislatore. Se non altro, almeno per evitare un abuso del diritto da parte di società (rectius, amministratori, soci e liquidatori di queste ultime) volto ad eludere i propri obblighi nei confronti dei creditori.


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