La presenza delle Sezioni Unite al tramonto dell’infalcidiabilità dell’IVA

Con due sentenze gemelle pubblicate a cavallo tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 (rispettivamente il 27/12/2016 n 26988 e il 13/01/2017 n 760 ma entrambe firmate l’8/11/2016) le Sezioni Unite della S.C. di Cassazione hanno stabilito che il principio della infalcidiabilità dell’IVA, espresso dall’art 182 ter l.f., trova applicazione solo nell’ipotesi di concordato accompagnato da una transazione fiscale.

Le sentenze ribaltano il precedente orientamento della Cassazione formatosi nel 2011 (con la sentenza n 22931/2011 , confermata da Cass. 14447/2014 ) che considerava intangibile il trattamento dell’IVA indipendentemente dalla circostanza che si attivasse la transazione fiscale.

La ragione della precedente scelta riposava sulla natura della disposizione istitutiva della transazione fiscale, considerata norma sostanziale (e non già processuale) in quanto attinente al trattamento dei crediti nell’ambito dell’esecuzione concorsuale dettata da motivazioni che riguardano la peculiarità del credito e prescindono dalle particolari modalità con cui si svolge la procedura di crisi.

Le nuove sentenze invece promuovono il ragionamento opposto ritenendo che la norma di cui all’art 182 ter introduca una procedura alternativa a quella di concordato, da applicarsi ogni qual volta il debitore sia mosso dall’esigenza di ottenere il voto favorevole dell’Amministrazione finanziaria dovendo in tal caso assoggettarsi alla regola dell’infalcidiabilità dell’IVA salvo decidere di trascurare questa opzione e trattare il debito IVA nel rispetto dell’ordine legale dei privilegi con la falcidiabilità che la scelta comporta nel rispetto dell’attestazione richiesta dall’art 160 2°co l.f.

Il cambio di indirizzo, per la verità, era atteso dopo che la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 7/4/2016 aveva ridimensionato l’argomento dell’indisponibilità a livello nazionale del credito per un imposta di natura eurounitaria di cui si nutriva principalmente l’opinione favorevole alla infalcidiabilità dell’IVA; tuttavia il tratto di originalità delle sentenze è dato dalla circostanza che prescindono da quella motivazione attribuendo peso all’aspetto dell’alternatività del procedimento con o senza transazione fiscale.

Ma la premura di minimizzare l’impatto che la sentenza della Corte di Giustizia europea ha avuto sulle decisioni delle Sez Un. accompagnata dal lineare pragmatismo con cui hanno saputo ribaltato il pensiero dominante sulla falcidiabilità dell’IVA, convincono circa la tardività dell’intervento nomofilattico della S.C. che poteva manifestarsi ben prima e con gli stessi argomenti solo ora spesi.

Non può peraltro sfuggire l’ironia presente nella circostanza che le due sentenze vadano a cassare altrettanti decreti pronunciati dalla C.A. di Genova che nel passato aveva rappresentato una delle poche voci a sostegno della falcidiabilità dell’IVA (cfr. C.A. Genova 27/7/2013; conformi: Trib. Bari 3/7/2014 ; Trib. Benevento 23/4/2014; C.A. Venezia 7/5/2013) prima di capitolare di fronte a quello che sembrava essere un dogma a cui ora invece la S.C. rinuncia con tanta semplicità argomentativa.

Non sfuggirà neppure la circostanza che gli argomenti ora sposati dalle Sez.Un. sono gli stessi proposti dalla C.A. di Genova prima della sua omologazione al pensiero (precedente) della S.C.

Ma la circostanza che mette definitivamente fuori tempo il provvedimento nomofilattico è dato dalla circostanza che il suo intervento è stato superato perfino da quello del legislatore che con l’art 1 comma 81 L 11/12/2016 n 232 (c.d. legge di stabilità) ha gettato un colpo di spugna sul divieto di falcidiabilità dell’IVA (riforma necessaria, per via della vincolatività delle sentenze della Corte di Giustizia per i paesi membri).

La legge ha modificato la rubrica dell’art 182 ter l.f. che non si richiama più alla “transazione fiscale” (che infatti di “transazione” non aveva nulla) ma più opportunamente si definisce come “trattamento dei crediti tributari e contributivi”.

Le novità del testo sono:

a) L’attuale norma ha eliminato il trattamento preferenziale accordato all’IVA e alle Ritenute

b) Il debitore può offrire il pagamento parziale o dilazionato di contributi o tributi alla condizione che il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato dalla vendita dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione, in caso di liquidazione avuto riguardo al loro valore di mercato.

c) Il predetto valore di mercato deve essere attestato da un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art 67 3° co lettera d) l.f.

Il meccanismo è dunque quello, già noto, dell’art 160 2° co l.f. per la falcidiabilità dei crediti privilegiati.

Il problema che si pone è se la falcidiabilità dei tributi e contributi sia permessa in caso di sopravvalutazione dei beni rispetto “a quanto realizzabile sul loro ricavato in caso di liquidazione”, ove esista un terzo, disposto ad acquistare il patrimonio del debitore in concordato ad un prezzo superiore a quello di realizzazione fallimentare.

In altre parole ci si domanda se il debito fiscale sia degradabile fino a concorrenza del valore di liquidazione dei beni nel caso esista la possibilità di un ricavo maggiore in sede concordataria.

La risposta affermativa è apparentemente ostacolata, di nuovo, dal pensiero della Cassazione (cfr 9373/2012) secondo cui ai sensi dell’art 160 2° co l.f. soltanto l’apporto del terzo che risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società, si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati.

La Cassazione afferma cioè che qualsiasi ricavo derivi dalla liquidazione del patrimonio del debitore, deve essere destinato al soddisfacimento dei privilegiati secondo l’ordine stabilito dalla legge, mentre soltanto l’apporto di finanza neutra sotto il profilo patrimoniale, è destinabile senza l’obbligo del rispetto delle cause di prelazione.

Questo principio tuttavia sembra scontrarsi con l’altro assai più pragmatico formulato dallaCorte di Giustizia europea del 7/4/2016 secondo cui la transazione fiscale o comunque il degrado del credito tributario, è sempre possibile nel caso in cui il concordato dimostri di offrire un livello di soddisfacimento superiore rispetto a quello conseguibile attraverso la vendita dei beni nell’alternativa liquidatoria avuto riguardo al loro valore di mercato.

L’alternativa liquidatoria è necessariamente quella fallimentare nella quale, per giurisprudenza (cfr. Trib. Firenze 2/11/2016 ), il valore di realizzo è riconosciuto come inferiore rispetto a quello conseguibile a seguito di una libera contrattazione realizzabile durante il concordato, fatta salva la necessaria procedura competitiva come prova di resistenza dell’offerta conseguita.

Alla luce del criterio comparativo introdotto dalla Corte di Giustizia europea mi pare più forte l’interpretazione che se il legislatore avesse voluto far riferimento al principio espresso dalla Cassazione (secondo cui tutto e comunque quanto ricavato dalla vendita dei beni è destinato prioritariamente ai privilegiati) avrebbe potuto semplicemente rimandare il trattamento del debito tributario e contributivo all’art 160 2° co l.f. senza richiamarne la disciplina nel diverso contesto dell’art 182 ter l.f.

Il fatto che invece il legislatore abbia voluto mantenere una disciplina autonoma del trattamento dei crediti tributari e contributivi da regolare anche alla luce del principio della Corte di Giustizia europea deve avere il significato che il degrado sia possibile purchè il soddisfacimento assicurato in sede concordataria sia comunque superiore a quello conseguibile nell’alternativa liquidatoria fallimentare avuto riguardo ai prezzi di mercato oggetto di attestazione.

Dopo anni di interpretazione dogmatica dell’art 182 ter l.f. che hanno lasciato sul terreno numerose opportunità liquidatorie proposte in concordato deviate in pessimi fallimenti, si auspica che l’illuminazione della motivazione della Corte di Giustizia europea che ha saputo pragmaticamente valorizzare la convenienza, sappia ispirare anche la giurisprudenza italiana attraverso il riconoscimento della prevalenza, nella competizione tra il concordato e il fallimento, a quella delle due procedure capace di soddisfare più e meglio il ceto creditorio, senza ingessarsi in petizioni di principio dalle quali è poi difficile sfuggire.

Solo attraverso questo auspicio è possibile salvare un senso alle sentenze gemelle delle S.U. che pur nella loro irrimediabile tardività hanno saputo recuperare al ragionamento giuridico valori di pragmatismo e linearità da trasfondere nella soluzione di uno dei più dibattuti temi del diritto concorsuali: perché se non si raccogliesse per intero il messaggio contenuto nella sentenza della Corte di Giustizia europea 2016, volto a sostenere la ragionevolezza e il pragmatismo della convenienza, il senso e l’utilità di quest’ultimo intervento delle Sez. Un. rimarrebbe assolutamente smarrito.


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