La “scientia decoctionis” del creditore “ordinario”: probabile declino di un orientamento consolidato

Cass. civ.,Sez. I, ord. 16/09/2020 n. 19298, Pres. Dott. Ferro, Rel. Dott. Falabella

Non grava sul creditore non qualificato (definito dalla S.C.: “ordinario”) l’onere del continuo monitoraggio dei bilanci del cliente ai fini della conoscenza dell’emersione dello stato di insolvenza di quest’ultimo, tanto più se il creditore non opera nel settore bancario/finanziario.

La Suprema Corte con ordinanza pubblicata il 16 settembre 2020 n. 19298 ha definito alcuni principi afferenti la scientia decoctionis in capo al terzo nei cui confronti si agisce in revocatoria.

Il caso riguarda una società in amministrazione straordinaria a cui è stata rigettata la domanda di revocatoria proposta ai sensi dell’art. 67, co. 2 l.f. in quanto priva del requisito soggettivo in capo al convenuto.

La ricorrente, con l’unico motivo di ricorso, sosteneva che la corte di merito avrebbe condotto il giudizio sul parametro della certezza assoluta e non invece, sulla base del “criterio della certezza logica o della ragionevole certezza, da applicarsi in tema di presunzioni”.

Gli Ermellini hanno respinto il ricorso ritenendo il motivo infondato e ribadendo un orientamento consolidato.

Il “piano di rientro” deciso dalle parti non aveva “valenza univoca e decisiva soprattutto perché accompagnato dalla prosecuzione delle forniture” (Cass. 19298/2020): tale circostanza evidenzia la costante fiducia della creditrice sulla solvibilità della società in crisi tenuto conto anche del fatto che l’importo oggetto della fornitura non era tanto elevato da costituire “univoco indice discriminatorio tra una situazione transitoria ed una definitiva” (Cass. 19298/2020).

Inoltre la creditrice non è società munita distrutture aziendali adeguate tali da permettere indagini sulle condizioni economiche della ricorrente. Pertanto, non si può pretendere che un creditore definito “ordinario” debba costantemente monitorare il cliente mediante l’analisi dei bilanci di esercizio “tanto più laddove venga in questione il bilancio consolidato di una grande impresa e gli indici di insolvenza possono sfuggire a un operatore non qualificato” (Cass. 19298/2020).

La Suprema Corte conclude che la scientia decoctionis in capo al terzo, intesa come effettiva conoscenza dello stato di insolvenza, “deve essere effettiva, ma può essere provata anche con indizi e fondata su elementi fattuali, purché idonei a fornire la prova per presunzione di tale effettività” (Cass. 19298/2020).

L’ordinanza in oggetto si inserisce in un solco giurisprudenziale consolidato in cui si innesta anche la successiva ordinanza della Cassazione n. 24655 del 05/11/2020, nella quale si afferma che la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza dell’accipiens deve essere valutata tenendo conto della sua condizione professionale e del contesto in cui gli atti oggetto di revocatoria si sono realizzati.

Sarebbe altrimenti un onere eccessivamente gravoso per il creditore, soprattutto quando si tratta di piccola o media impresa, se egli fosse tenuto ad un costante controllo della situazione patrimoniale e finanziaria delle aziende a cui fornisce prestazioni o servizi.

Resisterà questo orientamento? L’interpretazione della nozione di scientia decoctionis costituisce un atto di equilibrismo sempre più complicato e sottoposto a spinte contrapposte.

Infatti, da un lato esprime una condivisibile attenzione alla celerità e speditezza dei traffici secondo, peraltro, le volontà indicate dal legislatore del 2005 che con il D.L. 35 del 14/03/2005 ha introdotto al comma 3 dell’art. 67 l.f. ragioni di esenzione che hanno ammorbidito la severità dell’azione revocatoria fallimentare.

In tale prospettiva l’accipiens incorrerebbe nella revoca solo ove gli elementi che facciano presumere lo stato di insolvenza della controparte siano resi evidenti dal contesto concreto in cui opera, con l’obiettivo di tutelare tutte le imprese medio-piccole prive di un’organizzazione volta a monitorare la consistenza delle controparti che resterebbero penalizzate dal timore di un’astratta revocabilità dei compensi ricevuti per le loro attività.

D’altra parte, l’art. 2086 c.c. pone ormai all’imprenditore l’imprescindibile obbligo di dotarsi di assetti volti a prevenire possibili ragioni di crisi e non vi è dubbio che il monitoraggio del territorio commerciale in cui l’impresa opera costituisca un dovere volto ad evitare o ridurre il rischio di incorrere in insolvenze o in revocatorie.

Il Codice della Crisi e dell’Insolvenza tende a restringere sempre più le zone di incertezza in cui l’impresa possa inciampare provocando a domino un danno che si ripercuote su un tessuto economico più vasto e che può colpire altri imprenditori a monte nella catena produttiva o commerciale o mettere a rischio i livelli occupazionali.

Pertanto, se è vero che la sentenza in commento si inserisce in un filone consolidato di tutela del piccolo-medio imprenditore, pare altrettanto pronosticabile che detto orientamento sia destinato ad essere sostituito da altro volto a valorizzare l’imprenditore organizzato e previdente che conosce ed evita terreni paludosi in cui rischierebbe di affossare la continuità aziendale della sua impresa.


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