L’ammissione al passivo del leasing a seguito dello scioglimento del contratto
Massima
In ipotesi di contratto di leasing sciolto dal curatore, il creditore può soddisfare in sede fallimentare i crediti e gli interessi di mora sorti anteriormente al concorso alla data di dichiarazione di fallimento. Per i canoni successivi al fallimento, il concedente ha diritto alla restituzione del bene e ha possibilità di insinuarsi allo stato passivo, in via tardiva, per l’eventuale differenza tra il credito in linea capitale vantato alla data del fallimento e la minor somma ricavata dalla vendita o dalla diversa allocazione del bene.
Il caso
In un rapporto di leasing sciolto dal curatore, il Tribunale di Bergamo respingeva la domanda della società concedente volta ad ottenere l’ammissione al passivo dei canoni scaduti ante fallimento, ammettendola solamente per gli interessi di mora.
La pronuncia poggiava sulla ritenuta inapplicabilità dell’art. 72 4° co l.f. assumendo che per i contratti di leasing sciolti in pendenza di procedura l’art. 72 quater l.f. detta una disciplina speciale e prevalente sulla norma di carattere generale e prevede che l’insinuazione, sia per i canoni scaduti che per quelli a scadere, sia condizionata all’avvenuta collocazione dei beni.
La S.C. ha cassato la sentenza disponendo che il creditore ha diritto ad insinuare il proprio credito nel passivo nella misura dei canoni scaduti, mentre il credito derivante dai canoni a scadere -quantificato nella misura del capitale investito- dovrà essere compensato con il ricavato dalla allocazione del bene sul mercato e potrà essere ammesso per la misura eccedente la compensazione.
Le questioni giuridiche
La decisione della Cassazione risponde ad un doppio quesito posto dal creditore-concedente il bene in leasing relativo all’esistenza del diritto a veder ammesso tempestivamente ex art. 93 l.f. il credito maturato prima della dichiarazione di fallimento ed in costanza di contratto e in via tardiva ex art. 101 l.f. il credito eventuale risultante dalla differenza tra il capitale investito e il ricavato dalla vendita dei beni.
Il relatore afferma che la ragione del diritto del contraente adempiente di veder ammesso tempestivamente nel fallimento del debitore il credito per i canoni scaduti è rinvenuta nel richiamo dell’art. 72 l.f. operata dall’art 72 quater l.f. e che su ciò hanno già argomentato le sentenze di Cassazione nn. 4862/2010, 15701/2011 e 8687/2015 che sposano la tesi consegnata dalla sentenza in commento.
In particolare la sentenza n. 4862/2010 chiarisce come il concedente -cui il Tribunale aveva già ammesso al passivo i canoni scaduti alla data di fallimento- avrebbe diritto unicamente alla restituzione del bene e a compensare il ricavato con il capitale residuo investito.
La sentenza n. 15701/2011 invece ha cassato la decisione del Tribunale che aveva negato il diritto all’ammissione per i canoni scaduti, giungendo alla stessa conclusione della pronuncia n. 4862/2010 attraverso un parallelismo con il trattamento riservato al creditore pignoratizio dall’art. 53 l.f. ricordando che quest’ultimo, benché soddisfatto al di fuori del riparto fallimentare mediante vendita diretta del bene gravato da pegno, deve previamente chiedere l’ammissione del credito al passivo, sfuggendo così al concorso sostanziale ma non a quello formale; così pure il concedente, creditore per il capitale residuo, può soddisfare il suo credito per il capitale investito fuori del concorso, “solo previa amissione del credito al passivo”.
Con la sentenza n. 21213/2017 la Suprema Corte ha statuito che il credito del concedente si separa in due segmenti: “il primo relativo ad una somma certa e determinata già alla data della dichiarazione di fallimento ed il secondo relativo ad una somma indeterminata derivante dal ricavato dalla allocazione del bene”.
Ritenendo dunque insussistenti motivi per superare l’orientamento consolidato (confermato anche da Cass n. 17577/2015) conclude che il concedente, oltre alla restituzione del bene, può insinuare i canoni scaduti al lordo degli interessi di mora, mentre per il futuro ha un diritto eventuale derivante dalla differenza tra il credito residuo per capitale e il ricavato dalla vendita del bene da insinuare nello stato passivo in via tardiva.
Osservazioni
La sentenza in commento ha il merito di riassumere il pensiero della giurisprudenza di legittimità in tema di contratto di leasing sciolto dal curatore, la qual cosa fa sicuramente bene alla certezza del diritto; meno efficace risulta tuttavia la sua tenuta logica in quanto rimane insoluta una serie di questioni in relazione alle quali la risposta della Cassazione non convince.
La pronuncia della Cassazione capofila del corrente orientamento è la n. 4862/2010 la cui motivazione è richiamata dalla sentenza n. 15701/2011: entrambe queste pronunce sono a loro volta richiamate da quella in commento.
Tuttavia le prime due rispondevano a quesiti differenti e per alcuni profili opposti: la prima, verteva sull’ammissione al passivo del credito non scaduto (non interrogandosi neppure sulla correttezza dell’ammissione del credito scaduto, non oggetto di ricorso); la seconda riguardava l’insinuazione del credito delle rate scadute: pertanto il semplice richiamo della prima da parte della seconda avrebbe meritato un approfondimento e qualche distinguo.
In particolare la giurisprudenza non chiarisce la ragione per cui il richiamo dell’art. 72 l.f. da parte dell’art. 72 quater l.f. giustifichi la segmentazione del diritto di ammissione del credito.
La giurisprudenza pare giunta alle soluzioni offerte sulla base di una casistica disomogenea che non ha permesso un’interpretazione organica dell’art. 72 quater l.f. lasciando scoperte le risposte ad una serie di quesiti a cui non viene data alcuna spiegazione e che possono essere sintetizzati come segue:
- qual è il significato del riferimento all’art. 72 l.f. operato dall’art. 72 quater l.f.;
- qual è l’ampiezza del credito che il concedente può insinuare al passivo del fallimento;
- qual è il tempo in cui il concedente ha diritto ad insinuare al passivo il proprio credito (scaduto e non scaduto);
- qual è la disciplina degli interessi moratori;
- se è corretto il parallelo tra la posizione del concedente in materia di leasing e quella del creditore pignoratizio.
Proviamo ad analizzare i temi tracciati.
Dei principi espressi dall’art 72 l.f. sono esportabili alla disciplina del leasing soltanto i seguenti:
- la nozione di rapporto pendente e la sua sospensione all’incontro con il fallimento (1° comma);
- il diritto del creditore di stimolare lo scioglimento del contratto (2° comma);
- l’inefficacia delle clausole risolutive in conseguenza del fallimento (6° comma).
Non riterrei invece esportabile la disciplina del 4° comma che tratta il tema dell’ammissione del credito in conseguenza allo scioglimento del contratto, in quanto l’art 72 quater l.f. dispone esplicitamente qual è il diritto del concedente in termini di ammissione.
Dunque l’art 72 l.f. non interferisce con la disciplina del leasing quanto al trattamento del credito nel fallimento in quanto l’art. 72 quater l.f., sotto questo profilo, pare dotato di sufficiente autonomia.
Questa riflessione permette di escludere che il diritto del concedente di veder ammesso il proprio credito per i canoni scaduti possa trovare ispirazione nell’art 72 l.f.
L’argomento ci fa scivolare ai punti b) e c) sopra individuati relativi: i) all’ampiezza del credito vantato dal concedente e ii) al tempo del suo esercizio.
L’art. 72 quater l.f. tratta due differenti posizioni creditorie al 2° e al 3° comma: quella che riguarda il diritto della curatela e quella relativa al diritto del concedente.
Il 2° comma dell’art. 72 quater l.f. prevede l’immediata consegna del bene al concedente dopo di che si concentra sul credito del curatore pari alla differenza positiva tra la vendita del bene e il credito in linea capitale del concedente. L’ipotesi riguarda il caso del fallimento dichiarato in un momento di avanzata esecuzione del contratto di leasing in relazione ad un bene capace di conservare un valore intrinseco maggiore rispetto alla somma delle ultime rate non pagate e dell’opzione.
Il 3° comma apre a tutt’altro argomento, per nulla legato a quello disciplinato dal 2° comma: il diritto del concedente di insinuare il credito vantato alla data del fallimento; la Cassazione, anche se non lo spiega, ne restringe l’ambito al capitale a scadere recuperando il sintagma “canoni residui” dal 2° comma dello stesso articolo, mentre allaccia all’art 72 l.f. il trattamento del credito scaduto.
Tuttavia dalle riflessioni sin qui compiute si ricava che il ragionamento proposto dalla S.C. non è ineccepibile in quanto l’art 72 l.f. non è richiamato ai fini del trattamento del credito, tema già disciplinato dal 3° comma dell’art 72 quater l.f. mentre il 2° comma della norma in commento tratta un argomento differente i cui termini non sono esportabili sic et simpliciter al 3° comma della stessa norma che è già dotata di una sua completezza ed è suscettibile di una lettura autosufficiente.
La pronuncia n. 21213/2017 della S.C. mette insieme i pezzi di tre pronunce differenti (la n. 4862/2010, la n. 15701/2011, la n. 17577/2015 ) concludendo che il credito può essere gestito in due segmenti differenti: il primo (scaduto) insinuato tempestivamente e il secondo (a scadere) eventuale ed insinuato tardivamente.
Il principio che il credito sia segmentabile è però il frutto di un puzzle di massime le cui tessere non coincidono perché formate in contesti differenti e neppure conciliabili.
Inoltre la legge afferma altro e cioè che il concedente ha diritto di insinuarsi per la differenza tra il credito vantato alla data del fallimento (che fuori da influenze dell’art 72 l.f. è tutto il credito dato dalla somma del credito scaduto e a scadere) e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene: dunque la soluzione della segmentazione appare poco aderente al dettato normativo.
Anche sul tempo dell’insinuazione la Cassazione ha adottato una soluzione discutibile: una parte del credito viene rinviato ad un’epoca successiva alla vendita del bene, con la conseguenza che, quanto meno il bene risulta avere mercato, tanto maggior sarà il credito vantato dal concedente e minore la possibilità di insinuazione/soddisfacimento poiché è probabile che i requisiti della domanda di ammissione si perfezionino a riparti completati o a fallimento chiuso.
Qualora non si verificasse quest’evenienza estrema, rimane alta la probabilità che il fallimento abbia eseguito altri riparti che pregiudicano oltremodo il credito del leasing.
A questo riguardo una soluzione può essere trovata nell’applicazione dell’art. 96 I co. n. 2 l.f. favorita dal rilievo che il credito esiste ma la sua quantificazione è rinviata al momento della vendita del bene: è la stessa Cassazione, d’altra parte, che definisce il credito condizionale come “del tutto eventuale nel suo stesso venire ad esistenza, la riserva attenendo proprio all’evento costitutivo del diritto fatto valere” (Cfr. Cass. 13508/2014); dunque la soluzione indicata non è ostacolata dalla legge.
In alternativa il credito può essere ammesso in un ammontare indeterminato riservando al riparto il compito di determinarlo al netto della vendita del bene; questa stessa soluzione è adottata in tutti i casi in cui il credito sia certo nell’an ma non nel quantum se non al momento del riparto, come per il calcolo degli interessi dei crediti ipotecari, o della misura del credito di iva sui compensi dei professionisti la cui esatta determinazione dipende dal ripartito, od anche per il caso di ammissione del creditore con più coobbligati, ipotesi in cui al momento del riparto occorre verificare se è stato integralmente soddisfatto dagli altri coobbligati in modo da evitare indebite locupletazioni.
Prima di concludere affrontiamo ancora due temi.
La S.C. assume che il credito scaduto vada ammesso al passivo al lordo degli interessi di mora; il Tribunale di Bergamo, la cui sentenza è stata cassata dalla pronuncia in commento, aveva ammesso il concedente agli interessi sullo scaduto.
La soluzione appare corretta in quanto la mora è l’equivalente del risarcimento del danno che non può legarsi alla parte del credito maturato in conseguenza dello scioglimento del contratto (ex art. 72 4° co l.f.), ma opera sullo scaduto ante fallimento per il quale valgono le clausole contrattuali -efficaci sino al fallimento- che la prevedono; successivamente allo scioglimento del contratto ad opera del curatore, come acutamente rilevato da Cass. 17577/2015, viene meno l’esigibilità del credito per via della cessazione dell’utilizzazione del bene ed infatti il credito residuo scaduto è limitato alla quota di finanziamento pura, depurata dall’utile per l’utilizzo.
Infine, merita un cenno l’equiparazione, effettuata dalla sentenza in commento, tra il leasing e il credito pignoratizio. (riprendendo pedissequamente la motivazione della pronuncia 15701/2011 che l’ha proposta).
Così come il creditore pignoratizio si soddisfa fuori concorso, riferisce la S.C., dovendo tuttavia sottostare al concorso sostanziale che gli impone l’ammissione al passivo del credito, altrettanto farebbe il locatore finanziario per il credito relativo al capitale residuo per il quale può immediatamente soddisfarsi al di fuori del concorso senza attendere il piano di riparto sulla somma incassata “solo previa ammissione del credito al passivo”.
L’affermazione, oltre che incerta è incongrua: è incerta essendo dibattuta la tesi secondo cui il pignoratizio possa soddisfarsi al di fuori del riparto sottraendosi ai costi della procedura che graverebbero solo su tutti gli altri creditori (cfr. Cass. n. 1768/1979 e C.A. Torino 26/01/2011); inoltre è incongrua in quanto, affermando che il locatore può soddisfarsi “solo previa amissione del credito al passivo”, alimenta l’orientamento che sostiene l’ammissione al passivo per intero del concedente già in fase tempestiva senza attendere la vendita del bene.
Conclusioni
La sentenza in commento sul piano motivazionale è il portato di un puzzle non perfettamente composto: ha operato una sommatoria di massime che a loro volta non si coordinano, rintracciando una soluzione finale relativa alla ammissione del concedente al passivo per cui si fatica a trovare il riscontro nella norma.
Ove il risultato fosse quello stabilito dalla S.C. occorrerebbe che la motivazione avesse la capacità di convincimento che questa sentenza non mostra di avere.
Il rammarico è legato al fatto che dopo i primi passi mossi dalla giurisprudenza sul terreno dell’art. 72 quater l.f., quello battuto dalla sentenza n. 21213/2017 poteva essere l’occasione per pervenire ad un arresto persuasivo in grado di dirimere una serie di criticità che il testo normativo pone e che la soluzione della S.C. alimenta assai più che soffocare.
Si ricava un risultato insoddisfacente di fronte al quale c’è da augurarsi che le società di leasing proseguano nell’adire la Corte per stimolare motivazioni meno tralatizie e più ragionate di quelle che hanno da ultimo trattato l’argomento.
Guida all’approfondimento
Dottrina
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Casali, Leasing e fallimento: gli incerti rapporti dare – avere tra concedente e curatore, in Giur. It., 2015, 11, 2391.
Inzitari, Leasing nel fallimento: soddisfazione integrale del concedente fuori dal concorso sostanziale e necessità e necessità dell’accertamento del credito fuori nel concorso formale, in Contratto e impresa 6/2012, 1369.
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Giurisprudenza
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